Gli PFAS sono composti utilizzati per trattare moltissimi prodotti, dalle carte alle pelli, dai tessuti ai metalli. La loro pericolosità viene dall’elevata resistenza alla biodegrabilità, che fa sì che permangano nell’ambiente e contaminino le acque, con rischi rilevanti per la salute.
A lungo trascurata, poi messa in luce nel 2013 da studi richiesti dal Ministero dell’Ambiente, l’emergenza PFAS è ora al centro dell’attenzione e la si sta affrontando grazie anche alle forti sollecitazioni dell’opinione pubblica.
Nel Veneto, l’Amministrazione Regionale ha risposto con iniziative volte a monitorare la situazione nel territorio (ARPAV). Ha avviato iniziative per proteggere le risorse idriche, deliberando normative più stringenti per gli scarichi e deliberando programmi per favorire le azioni di prevenzione e tendere all’obiettivo PFAS zero nel più breve tempo possibile.
I sistemi produttivi rispondono in modo diverso dal passato, con la disponibilità ad adottare e sperimentare composti alternativi meno inquinanti e nuove tecnologie di trattamento dei reflui.
I gestori dei servizi idrici, cui fanno capo i depuratori, concorrono con la Regione e con il Ministero dell’Ambiente a finanziare e ad attuare i programmi di prevenzione. In questi assumono rilievo anche le iniziative per la gestione delle acque reflue, dove è preminente il ruolo di Consorzio Arica, che gestisce per conto della Regione Veneto il collettore del sistema Fratta-Gorzone.
L’emergenza rimane e c’è ancora molto da fare. Ma lo scenario è cambiato rispetto solo a pochi anni fa.
Dall’industria alle acque
La pericolosità degli PFAS è conseguenza della loro elevata resistenza alla biodegrabilità e della relativa facilità di propagazione a valle dei bacini d’origine attraverso acque reflue non adeguatamente trattate e indirizzate. Queste possono venire in contatto con le falde di ricarica delle acque potabili o con acque destinate all’agricoltura, entrando anche nel ciclo alimentare. Nelle aree a più alto rischio, gli PFAS sono stati rilevati nell’ambiente, negli esseri umani e negli alimenti, creando allarme per la salute. Gli PFAS non si accumulano nei grassi del nostro corpo (come i pesticidi) ma si legano alle proteine e vanno a incidere sul fegato e sui reni, disturbano il ciclo ormonale e la fertilità e ai più alti livelli di concentrazione risultano potenzialmente cancerogeni nei test sugli animali.
Rischi ecologici e sanitari
L’evidenza di rischi ecologici e sanitari ha indotto nel 2006 l’Unione Europea a introdurre restrizioni all’uso del PFOS, una delle molecole più diffuse tra gli PFAS. Ciò ha innescato, nell’industria la graduale migrazione a tecnologie più “pulite”. Si è passati da composti “in catena lunga” (con più di 8 atomi di carbonio, come PFOS e PFOA), persistenti nell’ambiente e bioaccumulabili, a composti “in catena corta” (con anche 4 atomi di carbonio, come gli PFBS e PFBA), a ridotta persistenza e limitata bioaccumulabilità. Ma il problema è ancora lontano dall’essere risolto, sia perché pesano i comportamenti passati, sia perché ci si confronta con un difficile equilibrio tra esigenze produttive, costi di depurazione e tutela dell’ambiente e della salute.
Quest’ultimo aspetto è emerso con un altro studio, affidato nel 2011 dal Ministero dell’Ambiente all’Istituto di Ricerca sulle Acque – CNR, che ha confermato per gli PFAS la a presenza di quattro aree critiche a livello nazionale: il Polo Industriale di Spinetta Marengo, che scarica nel Bormida; il Distretto Industriale di Valdagno e Valle del Chiampo, che scarica del bacino Fratta-Gorzone/Brenta; il Distretto industriale di Santa Croce che scarica in Arno; il tratto terminale del Fiume Adda, dopo l’immissione del fiume Serio.
Veneto in prima fila
Il Veneto è l’area in cui il caso PFAS è diventato più rovente. Nel maggio 2015 la Regione Veneto, assieme all’Istituto Superiore di Sanità, ha lanciato un programma di biomonitoraggio su un campione di 600 persone. Il risultato preliminare del periodo luglio-aprile 2016 ha mostrato concentrazioni nel sangue 20 volte più alte per il PFOA e 1,9 volte più alte per il PFOS rispetto alla media italiana. Dati comunicati con la massima trasparenza, che hanno comprensibilmente prodotto una forte apprensione nella popolazione interessata.
Le associazioni ambientaliste, come Greenpeace e Acqua Bene Comune, pur con toni diversi hanno lanciato campagne volte a denunciare situazione di pericolo e di presunta inerzia delle Istituzioni. La Regione Veneto dal canto suo ha ribadito il proprio impegno sul tema, in primo luogo con l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulle acque inquinate da PFAS per un’area di circa 200 kmq in quattro province (Vicenza, Verona, Padova e Rovigo) ove risiedono circa 350.000 abitanti. La stessa regione ha poi fissato a giugno 2016 nuovi limiti di tolleranza di alcuni PFAS nell’acqua potabile (PFOS: ≤ 0,03 µg/litro; PFOA: ≤ 0,5 µg/litro; altri PFAS: ≤ 0,5 µg/litro”), dopo pareri richiesti all’Istituto Superiore di Sanità e traguardando i livelli di performance stabiliti dal ministero della Salute.
Nell’ottobre 2017 una delibera della Regione Veneto ha abbassato ulteriormente quei limiti obiettivo a per la componente “altri PFAS” da 0,5 a 0,3 µg/litro. Sta di fatto che non si giunge alla definizione di limiti alla scala nazionale, dando punti di riferimento certi e creando la scala per accelerare lo sviluppo di nuove soluzioni per i trattamenti delle acque reflue e la protezione del patrimonio idrico.
La priorità è la prevenzione
Appare oramai evidente che soluzione del problema, almeno nel Veneto, non può che essere graduale e che prima di ogni altra cosa è necessario agire lungo più direttrici:
Risolvere i problemi sanitari, ambientali, economici e sociali creati dalla contaminazione da PFAS non è facile, ma è possibile facendo sistema attorno alle Istituzioni e dando la giusta priorità agli aspetti tecnici della prevenzione.
Indagini e monitoraggi
Un primo aspetto riguarda le indagini e i monitoraggi su base scientifica, per avere il quadro di riferimento sulla diffusione degli PFAS e dei loro impatti. Fra questi:
Limiti più stringenti
Un secondo aspetto attiene ai limiti imposti dalle Autorità alle concentrazioni di PFAS nelle acque, per le aree più esposte e in particolare per il bacino Fratta Gorzone:
Programmi di tutela
Il terzo aspetto riguarda le azioni di mitigazione e prevenzione, con l’inclusione degli PFAS nelle già esistenti iniziative per la tutela del bacino idrico del Fratta Gorzone, come quelle dell’Accordo di Programma Quadro, nato nel 2005 per migliorare la qualità delle acque attraverso nuove tecnologie nei cicli produttivi, nella depurazione e nel trattamento fanghi del distretto conciario vicentino. Un accordo che coinvolge a tutt’oggi 22 Enti – Ministero dell’Ambiente, Regione, Amministrazioni Locali, società di servizio idrico, associazioni imprenditoriali e del territorio e la stessa Arica – con obiettivi di investimento importanti. Inizialmente erano stati previsti interventi per circa 90 milioni di euro. Nel frattempo sono stati decisi interventi per 85,4 milioni di euro, finanziati dal Ministero dell’Ambiente per 7,9 milioni, per più di 34,7 dalla Regione e per più di 42,7 dai Gestori dei servizi idrici e degli impianti ad essi correlati. Tempi di approvazione più lunghi del previsto hanno poi portato, a partire dal 2008, ad ulteriori accordi integrativi.
L’ultima integrazione è l’Accordo Novativo del giugno 2017, su iniziativa del Ministero dell’Ambiente, volto anche a includere la problematica degli PFAS e a ribadire l’impegno su tutti i fronti aperti dall’Accordo di Programma, dalla spinta ai composti meno inquinanti alla riduzione delle immissioni, sino agli interventi per la protezione della acque potabili e la corretta movimentazione delle acque reflue di superficie. Quindi anche a disporre lo sblocco di fondi già stanziati. Fra questi anche 13 milioni destinati ai progetti già presentati e approvati, fra i quali è anche quello della prima tratta del prolungamento del Collettore a valle dell’abitato di Cologna Veneta.
La rimozione dei PFAS dalle acque, a partire da quelle destinate a uso umano e nelle zone più esposte, rientra oramai a pieno titolo gli obiettivi strategici delle politiche ambientali nazionali e non solo territoriali.
Arica dà il proprio contributo alla soluzione del problema PFAS per gli ambiti di sua competenza, con:
I risultati conseguiti
I risultati conseguiti con l’imposizione autonoma da parte di Arica di valori massimi per gli PFAS contenuti nei reflui conferiti al Collettore dagli impianti di depurazione, hanno avuto effetto sulla qualità delle acque recapitate allo scarico nel Fratta. Le rilevazioni effettuate la laboratori terzi certificati mostrano nel tempo un progressivo miglioramento della qualità dei reflui allo scarico. Le concentrazioni di PFAS risultano in costante miglioramento ed entro i limiti stabiliti dalla normativa regionale
I monitoraggi effettuati indicano anche che dal 2014 le concentrazioni di PFOA (fra le componenti più inquinanti) allo scarico del Collettore nel Fratta risultano inferiori a quanto riscontrato nello stesso corso d’acqua a monte dello scarico, ad evidenza dell’azione di controllo condotta da Arica.
Il contributo ai programmi nel territorio
Il contributo tecnico ai programmi per il miglioramento qualitativo delle acque di superficie si inscrive nel Cronoprogramma stabilito con il Decreto 101 del 07/03/2017. Quest’ultimo chiede a tutti i soggetti del territorio di indicare e adottare le migliori tecnologie disponibili (MTD) per raggiungere anche prima i valori obiettivo stabiliti per il 2020.
Per contribuire alle azioni previste dal Cronoprogramma, Arica istituito un Gruppo di Lavoro con Acque del Chiampo Spa, Medio Chiampo Spa, Viacqua Spa e SICIT. In quest’ambito, Arica ha:
Il lavoro continua e ulteriori azioni sono in corso. Ultima in ordine di tempo è la raccomandazione ad accelerare i processi di sostituzione delle sostanze più impattanti, come condizione essenziale per mantenere il passo di miglioramento e non rischiare di mancare gli obiettivi 2020.